Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso

già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.[1]

Il segno del viaggio

Osservando le opere di Giuseppe Atanasio Elia, mi è tornata alla mente una celebre frase di Fernando Pessoa: "La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo". Novello Odisseo, Elia, ci invita ad oltrepassare le porte e a metterci in cammino per un viaggio onirico, un pellegrinaggio verso la conoscenza di sé e del mondo. Nell'itinerario che affronteremo scopriremo che il reale si fonde con il fantastico, l'inconsueto ha il sapore della magia. Come Odisseo, lontani dal nostro porto sicuro, affronteremo un viaggio di formazione e crescita che ci permetterà di riapprodare alla nostra Itaca, che non per forza deve coincidere con quella dell'autore.

"Porta itineris dicitur longissima esse". Non a caso la porta nelle tele del Maestro è un soggetto ricorrente. "La porta del viaggio" è una porta scardinata, svelta dalla parete e posta al margine a significare che chi ha deciso di aprirla lo ha fatto come se, dopo essere stato prigioniero per lungo tempo, sentisse l'esigenza, di scappare per scoprire una realtà celata e che ora fa paura. I pericoli incombono, l'aria non è serena e gli squarci sulla parete sembrano nascondere un buio ancora più profondo. È la porta che scoperchia l'anima, permette di interrogarla e spaventa discernere quello che nasconde. La tela è divisa da linee nette, decise, poste a suddividere varie sezioni, diverse eppure simili per i colori che variano dall'arancio al blu, dal bianco al nero. La pittura sembra materica per l'abile uso del colore, il rettangolo si impone in tutte le dimensioni e molti sono quelli inscritti, tutti contenuti nel grande rettangolo madre della tela-vita.

Le opere "Luci nascoste", ricordano "Le città invisibili". Nel romanzo di Italo Calvino la narrazione viene scomposta in un gioco combinatorio, frutto delle ricerche dell'autore sullo strutturalismo e sulla semiotica. In virtù del primo Calvino scompone la narrazione in tanti piccoli tasselli che vanno poi ricollegati fra loro, in virtù della seconda questi assumono un senso sia singolarmente sia nell'interezza del testo. Allo stesso modo le tele di Elia sono interessanti sia se si guarda la parte della tela che l'autore ha deciso di delimitare con delle linee, quasi a volerla isolare dal resto, sia se si vuole interpretarla nel suo insieme. Elia e Calvino spiano la realtà e il caos che la caratterizza: il mondo è un caotico insieme di persone, situazioni, problemi che destabilizzano. Elia come Marco Polo, protagonista de "Le città invisibili", cerca di dare ordine al caos, attraverso un viaggio nella città della memoria o della fantasia. Come scrive Calvino infatti "Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra", inoltre sono fatte di luci nascoste in cui "tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, ma anche di "Sogni infranti".

In queste opere la tela è divisa in due parti perfettamente uguali fra loro, ma non simmetriche "In sogni infranti 2 - Ritratto infranto" l'omogeneità dei toni che vanno dal rosso all'arancio e al nero viene violentemente interrotta da una luce bianca, fatta di cristalli che si frantumano, si dissolvono. Una violenta esplosione infrange tutto quello che la mente era riuscita a creare nel proprio viaggio onirico e che verrà inevitabilmente travolto, quasi a sottolineare la netta differenza fra il sogno e la realtà. Per Elia inconscio e subconscio non sono mai nettamente separati, come si evince in "Sogni infranti 1 - Viaggio onirico" e in "Sogni infranti 3". In uno sfondo scuro, quasi tetro, prendono forma nuvole che ricordano tanto fenomeni atmosferici quanto superfici lunari, onde o esplosioni. Il colore sembra a tratti denso a tratti leggero, quasi etereo. "Albe e notti - scriverebbe Montale- qui variano per pochi segni". L'uomo non sopravvive al male di vivere neppure durante il riposo notturno perché i suoi fantasmi e le sue inquietudini appaiono puntuali anche nel suo subconscio, a volte informi, altre prendendo sembianza di inquietanti figure umane disumanizzate, forme vitali, prive di vita come in "Sogni infranti 5 - Immagini e ombre".

Chi siamo? Nemmeno uno specchio può rispondere a questo quesito. Ciascuno, come sostiene Pirandello, "si racconta la maschera come può, la maschera esteriore. Perché dentro poi c'è l'altra, che spesso non s'accorda con quella di fuori. E niente è vero". Il nostro autore lo ha ben capito e per questo le sue figure non sono mai delineate, leggibili, piuttosto si intuiscono, si immaginano. Così davanti alla tela il fruitore ha come l'impressione di sbirciare nella loro vita, di sentirne "Silenzi e voci".

Come Joyce nell'Ulisse Elia ci invita a viaggiare, spinti dal flusso della coscienza. Il fruitore si affida ai colori e si lascia trasportare dalle emozioni per compiere un percorso indimenticabile attraverso i sentimenti. L'Artista consente che lo sguardo di chi osserva sia ad altezza d'uomo e che la sua "narrazione" possa essere letta e compresa. Chi guarda l'opera si affida ai colori e al flusso delle emozioni per compiere un viaggio nei sentimenti. Alla fine i ricordi saranno indimenticabili, le sensazioni indelebili. A volte si sentirà il desiderio di osservare con maggiore attenzione per scoprire nuovi angoli e percepire nuove sensazioni o semplicemente per assecondare il desiderio di riuscire a leggere nella mente e nei pensieri dell'autore, per verificare se coincidano con i nostri. Elia ci trasporta in un mondo altro, in un'immensa frammentarietà, in atmosfere oniriche e irreali, in una fuga dalla realtà che fa pensare ad un perpetuo, inutile, vagare alla ricerca perenne dell'oggetto del desiderio verso cui ciascuno di noi tende, ma che ci sfugge inesorabilmente e che, come la bellissima Angelica dell' "Orlando furioso" è sogno, fantasma, che tutti tentano disperatamente di afferrare. Non riuscendo nell'intento si finisce per perdersi. E questo perenne errare, inseguendo qualcosa che non si può raggiungere, genera follia, inquietudine, male di vivere. Ognuno di noi ha un preciso porto cui approdare, ma ci ritroviamo ad inseguire qualcosa che ci allontana dal trovare il senso della vita, il significato stesso della ricerca umana. Elia, mentre abile traccia il suo percorso sulla tela, si ritrova a inseguirlo a sua volta, realizzando così con disincanto una riflessione sull'esistenza umana e sul periodo storico che stiamo vivendo. Riesce a farci interrogare sulla soggettività con cui si percepisce il mondo e sulle trasformazioni che con il tempo subisce. Così i nostri sentimenti diventano collettivi.

In "Silenzi e voci" sono presenti più che delle persone dei personaggi. Appaiono fermi, fissati in quella forma, in quel ruolo, in quella maschera. Come non pensare alla crisi d'identità del personaggio pirandelliano, alienato, estraneo, forestiero di fronte alla realtà e alla vita, colto nella "tragedia del vedersi vivere"?

In "Silenzi 3" un'anziana donna aspetta che il telefono squilli, ma invano. Nella triste calma della sua casa l'interminabile attesa di poter sentire all'altro capo del filo le voci di figli e nipoti. In questa tela protagonista è il dramma della solitudine, una problematica sociale di grande attualità. Invece in "Silenzi e voci 13" una stanza vuota e asettica esprime la solitudine di un bambino dal volto già adulto. Stringe il suo peluche, unica muta presenza a cui può affidarsi, dal momento che, come sempre più spesso succede, gli adulti sono troppo impegnati a vivere la loro vita e la loro routine per poter essere presenti nella vita delle proprie creature che dovranno imparare a diventare grandi da sole. Ancora la separazione e la solitudine di chi deve andare in "Silenzi e voci 13 e 14". "Silenzi e voci 7" ci riporta ai giorni più duri della pandemia da covid 19. Le linee spesse e ben marcate ricordano l'isolamento a cui siamo stati costretti, l'impossibilità di poter stare vicino ai nostri cari. In basso a sinistra lunghi e deserti corridoi, vuoti e interminabili come il buio tunnel in cui siamo entrati e che ci ha messo a dura prova.

L'uomo non è l'unico essere vivente a sentirsi solo e isolato nel mondo. Anche un cane ("Silenzi e voci 16 e 17") può esprimere sofferenza per aver provato l'amore di un padrone che poi lo ha abbandonato o per non aver conosciuto mani capaci di donare carezze. E anche allo smarrimento e al senso di vuoto di questa creatura la Natura matrigna, di leopardiana memoria, è indifferente. Così la sua voce si perde e rimane solo il suo infinito e incompreso silenzio. "O natura, o natura,/ perché non rendi poi/ quel che prometti allor? Perché di tanto/ inganni i figli tuoi?".

Elia fa dimenticare a chi osserva i suoi quadri l'uso di un supporto fotografico perché lo supera approdando alla pittura pura in una ricerca dei colori, delle forme e delle immagini il cui risultato è sempre in perfetto equilibrio. La geometria delle linee divide lo spazio e sulle tele si aprono porte, finestre, stanze. A volte sembra di essere di fronte a delle scatole cinesi che non sempre ci è consentito aprire.

I suoi quadri ricordano volutamente le opere dell'ultimo Edward Hopper, come lo stesso artista vuole sottolineare ("Silenzi e voci 1 - Omaggio a Hopper"). Come le tele dell'artista americano anche nelle tele di Elia c'è un'apparente e illusoria serenità e le persone che le popolano sono alienate, lontane mentalmente. In tutte il dato concreto assume una dimensione astratta. I tratti sono ben definiti, le forme asciutte, capaci di fondere fisica e metafisica e di rendere l'osservatore partecipe delle atmosfere. Elia ci invita a scrutare oltre le apparenze per cogliere significati più profondi. "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.".


[1]Itaca, Costantino Kavafis.

Caro Luciano

I"μῶρος δὲ θνητῶν ὅστις ἐκπορθεῖ πόλεις

ναούς τε τύμβους θ', ἱερὰ τῶν κεκμηκότων·

ἐρημίαι δούς <σφ'> αὐτὸς ὤλεθ' ὕστερον." [1]

              Caro Luciano,

come ben sai, il patrimonio culturale mondiale nel corso della storia ha subito gravi attacchi da parte dell'uomo e della natura. Il suo danneggiamento, o ancor peggio la sua distruzione, ha minato la custodia della storia dell'uomo, il segno del suo passaggio su questa terra, l'espressione dell'identità culturale di un popolo.

I terribili eventi di guerra che stiamo vivendo non possono non farci pensare a chi, come te, ha difeso la memoria e il valore dell'Arte.

Oggi più che mai, mentre bombe e carri armati seminano morte e distruzione in Ucraina come nel resto del Medio Oriente, annientando Arte e storia, con la collettiva "Storia e Contemporaneità tra Passato e Presente" si vuole esaltare la bellezza e l'Arte per omaggiare chi ne difende la memoria, come hai fatto tu che all'Arte hai dedicato tutta la tua vita.

Nella tragedia Le Troiane di Euripide Ilio è caduta, la guerra è finita e i superstiti attoniti scorgono con orrore le macerie che hanno soppiantato la loro città, le loro case. Hanno perduto compagni, sposi, figli.

Anche gli dei che si erano schierati dalla parte degli Achei riconoscono le crudeltà e le nefandezze da loro commessi decidendo per loro un νόστος (ritorno) tormentato e doloroso. Gli uomini, immemori della propria natura mortale, sacrileghi verso gli dei e verso la memoria dei defunti, hanno consegnato tutto all'oblio. Le loro azioni, atroci e sventurate, hanno vanificato i valori della polis e decretato la fine della civiltà stessa. L'uomo in persona ha voluto la propria fine, usando la guerra come illogico strumento risolutivo.

Mentre scrivo mi piace immaginarti, come tanti anni fa, a chiacchierare con me di arte e letteratura seduto al tavolo di un bar. Ci saremmo ricordati, ad esempio, di quando Pablo Picasso incontrò in Spagna il nostro pittore contadino e lo definì "un pittore grande grande che dipinge piccolo piccolo". Picasso non alludeva alle dimensioni delle opere di Francesco Giombarresi, ma a quell'attenzione per la Natura e le piccole cose di pascoliana memoria. Caro Luciano, è veramente piacevole osservare e commentare con te queste opere. Un' esplosione di colori ricopre ogni centimetro della tela come a imprigionare il mistero della vita nel reale. L'artista traccia veloci linee, dense di colore, fino ad ottenere un equilibrio, sia in un paesaggio naturale sia in volti che ricordano le maschere di Munch, in un ritorno ossessivo sullo stesso soggetto che si triplica in visi che si interrogano e interrogano.

Come non pensare guardando le opere di Wanda Lantino Poletti a "L'interpretazione dei sogni" di Freud e al verso 312 del VII libro dell' "Eneide" di Virgilio di cui si fa richiamo anche nel titolo di un'opera. Sulla tela si esplicita il viaggio nel subconscio per la coscienza di sé. È la condivisione di un sogno, il modo personale che ciascuno ha di cogliere ciò che cela nell'io più profondo e di esternarlo. La realtà viene abbandonata per dare spazio all'immaginazione, libera dalle sovrastrutture mentali. Temi onirici, illusioni ottiche, cambiamenti testimoniati da larve, già quasi insetti.

Nelle opere di Vittorio Balcone il vuoto si compenetra con il pieno. La materia si unisce allo spazio, è lo stadio finale dell'evoluzione della forma nel vuoto. Si intuisce il movimento che è stato compiuto nel pieno controllo dell'artefice che lo ha creato, ponendo le forme in perfetto equilibrio. Balcone concretizza Aristotele quando parla di entelechia per spiegare il termine finale del movimento, dopo il passaggio dalla potenza all'atto. Nello scultore la potenza sta alla materia come l'atto alla forma.

Non si può osservare le sculture di Biagio Micieli senza ricordare le opere cubiste di Jaun Gris, Picasso o Zadkine. Nelle sue creazioni tutto è magistralmente in ordine, essenziale, in perfetto equilibrio. La geometria delle forme è stata imprigionata in un blocco lavorato con superfici variate. È la materia che riemerge dal caos primordiale per trovare le forme definitive nello spazio, così come erano state immaginate nella mente dell'artista. Il risultato estetico è moderno, sebbene, in qualche modo, rimandi ad antiche immagini.

Eleganti e raffinate le donne di Biagio Brancato si materializzano più o meno evanescenti sulla tela grazie ad una tecnica raffinata. Le pennellate, sia nei ritratti di donne che nel paesaggio, sono date con tocchi veloci che rimandano ad alcune opere di Mafai. Anche il pittore comisano, come il suo predecessore della scuola romana, pone l'attenzione nella scelta accurata della tavolozza e della luce, senza trascurare i forti chiaroscuri e i volumi. Caro Luciano, hai ragione a ricordarmi che Brancato è stato un incisore di grande valenza e spessore nelle sue xilografie.

Raffaele Romano ci invita a fare un viaggio onirico nel mito. Il seno, protagonista assoluto della tela, mostra una femminilità esuberante e generosa, nello stesso tempo sacra e profana, al contempo purezza e peccato. La donna si impone come origine della vita e mette quasi in secondo piano la storia che racconta. La tecnica pittorica è magistrale, l'artista varia le tonalità dei colori preminenti su tutta la superficie, dando vita a immagini fiabesche e suggestive, nate da pennellate rapide e allo stesso tempo incisive.

Luciano, ricordo Giuseppe Salafia al lavoro nello studio di via Conte di Torino che condivideva con papà, Luigi Galofaro. Quando andavo a trovarli adoravo gli odori di quelle stanze e il loro disordine ordinato. Restavo affascinata da quel mondo, in modo particolare dalla creta che prendeva forma mentre Salafia la modellava sapientemente per dare vita alle sue forme armoniose e levigate. Nella sua arte marmi policromi, gioco di pieni e di vuoti, totem moderni dal sapore antico, simboli che raccontano di nascita e rinascita, come l'inaspettato germoglio che timido suggerisce che la primavera torna sempre.

Nell'anno in cui io nascevo, Saro Lo Turco curava l'arredamento di un film di Bertolucci, "La luna". Erano gli anni in cui si imponeva come scenografo per il cinema e il teatro. Ma le emozioni più forti arrivano dopo il trasferimento a Sidi Bou Said quando l'artista trova nuovi stimoli e inizia a sperimentare il colore che nasce dall'osservazione del paesaggio e della luce, che trasforma le cose e fa apparire diversi persino gli stessi soggetti. Ogni suo paesaggio ricorda l'amore che l'artista ha per la terra africana e cattura l'osservatore al punto che questo si immagina farne parte.

Antonio Virduzzo è grafico d'avanguardia in composizioni modulari che riproduce anche nella tecnica scultorea e nell'oreficeria. Nell'opera "Stele" gli anelli delle catene che vogliono assoggettarci si moltiplicano, ci imprigionano, ma l'uomo trova la forza di spezzarli nella ricerca di quella libertà che trionfa nell'ultimo anello all'apice del bronzo. Nella sua grafica i moduli si duplicano, acentinaia, migliaia, uniti da un destino comune. Ciascuno di noi è solo di passaggio su questa terra, qualcuno sopravvive alla morte nel ricordo comune, altri si impongono alla memoria con le loro gesta, ma di altri non resta che un'ombra, un flebile ricordo o nulla.

Sai, Luciano, sorrido pensando che il professore Raffaele Terranova era stato inconsapevolmente l'inventore di un'alternanza scuola-lavoro ante litteram.Era un privilegio per i suoi alunni essere invitati nella sua bottega a "imparare il mestiere". Vederlo lavorare con i ceselli il rame, osservare la sua mano sbalzare sicura la lastra e vedere le figure prendere forma con gli strumenti personali e unici, creati in base alla necessità del momento. Con questi arnesi, semplici e antichi, Raffaele Terranova domina la materia e la esalta, lavorandola con pazienza per dare forma alla bellezza e all'armonia delle sue opere.

Come dimenticare l'umanità del Direttore Germano Belletti che alla fine degli anni '50 rivoluzionava la gloriosa Scuola d'arte con metodologie e idee innovative! La composizione "Notte siciliana" è un omaggio alla città di Comiso e alla Sicilia, una foto scattata con i suoi occhi per fissare il ricordo di quella terra che lo ha accolto e apprezzato come uomo e come artista. Ceramista di notevole spessore, pluripremiato in mostre a carattere internazionale, trasferisce la sua arte e conoscenza della materia anche nelle sculture e nei dipinti, infatti l'opera "Dama e cavaliere" sembra proprio un bozzetto per un pannello di ceramica.

Eleganti e raffinate, dal sapore contemporaneamente classico e moderno, i bronzi di Giuseppe Micieli sono stati modellati con perizia tecnica e buon gusto. La patina li colora di antica bellezza, rendendoli ancora più preziosi. I volumi sono accuratamente calcolati sia che le figure prendano vita da un blocco, come nella composizione "Coniugi", sia che si sviluppino nello spazio con masse più dinamiche, come in "Cornamusa" e in "Sorelline". Le sue opere sono novelli idilli che si materializzano.

Giovanni Di Nicola nelle sue sculture ricorda il dramma dell'essere umano moderno. Il messaggio suggerisce la perdita di valori e di punti di riferimento dell'uomo contemporaneo, convinto di essere protagonista e dominatore della storia quando, nella maggior parte dei casi, la subisce e ne è prigioniero. Lo scultore trasferisce nella sua arte la solitudine dell'uomo che non lascia spazio nemmeno ad un'immaginazione consolatoria. Le forme sono molto frastagliate e la patina è per l'artista una componente essenziale, utilizzata per caricare di emozione e arricchire di antico le sue creazioni.

Le sculture modulari di Nino Caruso trasferiscono nel presentearchitetture del passato. L'artista è un ceramista innovatore e promotore della ceramica raku che ha promosso in tutto il mondo. Le sue ceramiche interagiscono con lo spazio, i moduli animano un chiaro scuro, dando dinamicità alla scultura. Spesso i tagli applicati ricordano il movimento, le onde, la musica. Nino Caruso con le sue opere ha dato prestigio alla tecnica della ceramica equiparandola ad altre tecniche scultoree.

Orazio Pelligra è abile nell'uso della matita con cui traccia segni rapidi ma incisivi. Anche nella pittura è condizionato dal disegno che resta alla base delle sue opere. La materia pittorica è corposa, le pennellate veloci, ma incisive. I volti dei personaggi sono espressivi e convincenti e ricordano l'uso del colore dei pittori dell'Impressionismo, rimandando al Realismo novecentesco nel risultato. Nelle sue tele prendono forma persone e personaggi, fotografati dagli occhi attenti dell'artista che li impone alla memoria.

Elio Licata ci invita a tuffarci nella storia della sua Gubbio, rivisitando le tavole eugubine e dando loro nuova e moderna vita. I canoni scultorei tradizionali vengono messi in discussione e l'opera si trasforma in un oggetto con cui il fruitore può entrare in contatto. L'artista quasi lo invita a sfogliare le pagine del libro o a raccogliere e ripiegare la fisarmonica metallica che narra dei martiri della città umbra.

Gesualdo Spampinato è attento non solo alla tecnica pittorica, di cui nelle sue opere dimostra grande padronanza, ma anche al messaggio che vuole tramandare. In "Città che vola" l'aeroporto di Comiso e il Mediterraneo come ponte fra i popoli e le culture. In "Croci bianche" colpi di mitragliatrice e di cannone segnano drammaticamente la tela. Il bianco indica che la guerra cancella tutto, tranne i crimini di cui l'uomo si è macchiato, che restano nello sfondo indelebili. Le croci ricordano un famoso verso di Giuseppe Ungaretti: "ma nel mio cuore nessuna croce manca".

Spampinato, caro Luciano, mi fa tornare in mente Euripide che, come dicevamo, nella sua attualissima tragedia racconta la crudeltà e l'insensatezza della guerra, di ogni guerra.

La cosa più grave, me ne darai atto, è che dopo milleseicento anni tutto è cambiato, ma nulla è diverso e i vincitori e i vinti della guerra di Troia richiamano i vincitori e i vinti di ogni conflitto, di ieri e di oggi.

Ogni guerra decreta e sigla irrimediabilmente l'ennesimo fallimento dell'uomo capace di cose straordinarie e di indefinibili crimini. Abile nel creare la bellezza, ma altrettanto folle da distruggerla, capace di cancellare secoli e secoli di storia, della propria storia, in un battito di ciglia: "Molte sono le cose inquietanti e nessuna lo è più dell'uomo"[2].

Osservando le opere di Giuseppe Atanasio Elia sembra di sbirciare gli interni di un appartamento, e sentirsi partecipi dei "Silenzi e delle voci" della stanza. Giochi di specchi confondono la vista e rompono lo spazio in ordinate geometrie. Linee attraversano e tagliano, i colori e le sfumature dividono come a ricordare che, come scriveva Pirandello, la verità non è mai una. Gli interventi sul supporto fotografico sono controllati e di gusto, gli effetti coloristici accentuano il senso onirico e poetico della composizione.

Gioacchino Distefano è artista raffinato nell'uso della tecnica pittorica. Poeta della tela rimanda alla potenza della natura con segni che ricordano radici aggrovigliate di alberi in grado di tracciare tunnel inestricabili nel sottosuolo o alla terra arida e spaccata dal sole su cui è impossibile il lavoro della vanga. Il tutto in uno squisito ed espressivo uso del bianco e del nero e della luce che rende vibrante la composizione. Nell'opera "Globi" il colore e la luce esplodono in un azzurro che fa pensare a Venere, ai pianeti e allo spazio, in un viaggio surreale nell'universo.

Anche l'impasto dell'argilla è nuovo e singolare in Luigi Pero. Dopo la cottura in forno il risultato è straordinario, il cotto appareneroe dall'effetto ferroso, tanto da farlo sembrare metallo. I monoliti di Pero non sono perfettamente lisci, la superficie rugosa li rende antichi. Sono forme imponenti, semplici, ricercate e di gusto, in cui le forme essenziali rimandano al mito, a totem primitivi. Si potrebbe parlare di menhir contemporanei.

Luciano, so che è di antica data la tua amicizia con Salvatore Meli, un compaesano di cui avevi grande stima. Ceramistae scultore di altissimo livello, era capace di fondere in un equilibrio perfetto antico e moderno. I suoi vasi sono raffinatissimi, straordinari per l'eleganza della forma e la decorazione. Composizioni modulari, varietà cromatica, forme geometriche compongono sculture dal sapore antico seppur modernissime.

Luigi Galofaro, abile nel lavorare i metalli e trasformare, attraverso l'uso di patine, in metallo anche altri materiali, risulta sempre originale e coerente con il suo percorso artistico. Nelle sue ultime opere è evidente il conflitto umano, sia individuale che sociale. Le sue sculture sono apparentemente statiche, ma, a guardarle con attenzione, vi si legge oltre a una dinamicità palese un movimento in potenza. In "Integrazione" un'esplosione centrifuga disgrega l'acciaio o il ferro e riordina la materia in un lucido, razionale e geometrico comporsi e ricomporsi dei volumi.

Per concludere questo nostro nuovo incontro, caro Luciano, ti voglio chiedere se ricordi la proprietà transitiva in matematica. La ricordo bene perché mi colpì molto quando al liceo il mio indimenticato prof. Pasquale Puglisi me la spiegò. E oggi mi piace applicarla a quest'ultimo concetto che mi fa piacere condividere con te. Se L'Arte è in relazione con l'uomo e la storia è in relazione con l'uomo, allora anche l'Arte e la storia sono in relazione. L'Arte è l'uomo, in una delle sue più alte forme di espressione. Dunque se l'uomo distrugge l'Arte distrugge se stesso, condannando all'oblio anche il suo passaggio nella storia. Grazie sempre, Luciano, per esserci stato e per aver ricordato attraverso le tue parole questi artisti tuoi compaesani, contribuendo a diffondere la bellezza e l'Arte.


[1] Euripide, Troiane 95-98. "Pazzo è chi tra i mortali devasta le città e i templi e le tombe, sacre dimore dei defunti: consegnando tutto questo all'oblio perisce egli stesso."

[2] Sofocle, Antigone, vv. 332-333.

Una vita per l'Arte

Sosteneva di non saper nulla sull'Arte e non sapeva di avere talento fino a quando Mondrian non la convinse. Musa inquieta di molti autori e artisti, Peggy Guggenheim (1898-1979) dedicò la vita all'Arte, convinta di dover, come spesso diceva, proteggere quella a lei contemporanea. Ricca ed eccentrica ereditiera di Benjamin, scomparso prematuramente nel naufragio del Titanic, dedicò la sua vita alla ricerca della bellezza. Conobbe Hemingway, Dalí, Capote, e Cocteau, intuì il genio Rothko e Pollock, visse tempestose relazioni con Vail, Holms, Garman, Tanguy, Beckett, Ernst e altri famosi scrittori e artisti. Quando arrivò a Venezia, aveva 49 anni e una vita intensa alle spalle. Palazzo Venier dei Leoni, disegnato nel 1749 e rimasto incompiuto, sembrò il luogo adatto a diventare la sua dimora. Nei trent'anni in cui visse a Venezia, le stanze della casa ospitarono artisti di ogni tipo e divennero infine le sale del museo che ospita una delle collezioni più complete e importanti al mondo della storia dell'arte del ʹ900. Fu Marcel Duchamp ad aiutarla con consigli e suggerimenti per l'organizzazione delle prime mostre e sugli artisti che dovevano essere sostenuti. Peggy scrisse nella sua biografia: "devo a lui la mia introduzione nel mondo dell'arte moderna" e aggiunge "non so come avrei fatto senza di lui. Mi educò completamente, perché io non sapevo la differenza tra Surrealismo, Cubismo e Arte Astratta". Véronique Chalmet, in Peggy Guggenheim. Un sogno d'eternità (Odoya 2014), tradotto in italiano da Pegoraro, ne elabora una dettagliata biografia, raccontandola visionaria, provocatrice sensuale e disinibita, collezionista attenta. Donna piena di ammiratori che ha vissuto una spumeggiante mondanità tra matrimoni disastrosi e oscuri risvolti familiari. Nel centenario della nascita è stata ripubblicata la sua autobiografia, Una vita per l'arte. Confessioni di una donna che ha amato l'arte e gli artisti (Rizzoli 1979), tradotta da Piccioni, in cui l'autrice racconta le vicende private della sua famiglia sullo sfondo dell'Europa tra le due guerre. Probabilmente la sua più autorevole biografia è Mistress of Modernism: The life of Peggy Guggenheim di Mary V. Dearborn (Houghton Mifflin, Boston 2004). Si spense nel 1979 in quella Venezia di cui si definiva l'ultima dogaressa.

Sono passati settanta anni da quando per la prima volta la collezione Guggenheim venne esposta in Europa. Le opere cubiste, astratte e surrealiste resero le sale del Padiglione Greco alla XXIV Biennale di Venezia coerenti al modernismo rendendo l'Italia all'avanguardia. Per celebrare il 70° anniversario verranno inaugurate quattro mostre:

Marino Marini. Passioni visive(dal 27 gennaio fino al primo maggio), a cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi, dedicata all'autore del gesso Angelo della città, acquistato nel 1948 da Peggy Guggenheim e trasformato in bronzo per essere esposto alla Mostra di scultura contemporanea, curata e organizzata dalla stessa Peggy nel giardino di Palazzo Venier dei Leoni. L'opera è stata poi collocata, come volle la collezionista, tra i cancelli sul Canal Grande.

Josef Albers in Mexico (19 maggio - 3 settembre), a cura di Lauren Hinkson, nella quale saranno esposte per la prima volta al pubblico fotografie e foto-collage, insieme a un significativo numero di dipinti, dell'artista provenienti dal Museo Solomon R. Guggenheim di New York, oltre a un gruppo selezionato di foto-collage sul Messico e dipinti concessi dalla Fondazione Anni e Josef Albers.

1948: la Biennale di Peggy Guggenheim (25 maggio - 25 novembre), curata da Gražina Subelyte. Le Project Rooms del museo ricreano l'ambiente del Padiglione, allestito in quell'occasione dal celebre architetto veneziano Carlo Scarpa.

Un'esposizione dedicata ad Osvaldo Licini, figura di spicco nel panorama artistico della prima metà del XX secolo, curata da Luca Massimo Barbero, che chiuderà nel gennaio 2019 e che celebra i 60 anni dalla scomparsa dell'artista che vinse il gran premio internazionale per la pittura alla XXIX Biennale di Venezia dove aveva presentato 53 opere in una sala personale allestita da Carlo Scarpa.

La storia di Peggy Guggenheim viene presentata attraverso le duecento principali opere della sua collezione, solo in parte esposte al pubblico. I saggi introduttivi degli autori costituiscono una guida alla comprensione delle scelte e degli indirizzi che originarono la raccolta. La collezione Peggy Guggenheim a Venezia, può essere conosciuta attraverso i testi di Elena Calas, Nicolas Calas, Sandro Rumney, La collezione Peggy Guggenheim a Venezia (Rizzoli 2001) e Peggy Guggenheim. Una donna, una collezione, Venezia di Barozzi (Campanotto 2011). Vi si possono ammirare capolavori del Futurismo, dell'Astrattismo europeo, del Cubismo, del Surrealismo di alcune delle più grandi personalità artistiche del XX secolo.

"Si è sempre dato per scontato che Venezia è la città ideale per una luna di miele, ma è un grave errore. Vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro". P. G.

Marta Galofaro

Arte I COLORI NELL'ANIMA 

Le tele di Mario Amico sono i suoi occhi, sono la sua anima filtrata dai colori. Poche pennellate di colori per la maggior parte vivaci e che non sempre coprono tutta la tela esprimono il suo essere. Particolarmente dotato per il disegno sin da ragazzo Amico, non ha coltivato la sua passione quando svolgeva la sua vita di padre, marito, lavoratore, ma questa dote è emersa in modo naturale in quella che egli stesso ha definito "la morte da vivo", quando lucidissimo si è ritrovato a non essere più padrone del suo corpo e a perderne le più elementari funzioni, rendendo difficili e, col passare del tempo impossibili, anche i più semplici gesti come il saluto, due chiacchiere con un amico, una carezza alle figlie, un bacio alla moglie, colonna instancabile che gli è sempre stata vicina in questi anni difficili. Sin dalla preistoria l'uomo ha sentito l'esigenza di comunicare, di lasciare messaggi. Questa necessità è insita nella sua natura, l'arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva, non imita la realtà concreta in cui viviamo. Non rappresenta la verità, ma una verità: quella dell'artista e le molteplici verità di chi osserva l'opera dandone un'interpretazione. Nonostante non possa essere arbitro della tecnica il risultato sulla tela è notevole perché la forza, la necessità e la volontà di esprimere superano le difficoltà materiali. Va rilevata una coerenza nel tratto che rende le opere di Amico facilmente riconoscibili. È possibile perdersi nel ricordo primaverile di un campo di papaveri o in una passeggiata nella natura quando ormai è autunno. A volte i ricordi della memoria non sono ben delineati e così labirinti di pensieri affollano la mente e ricoprono l'intera tela. Si resta in trappola, a volte in catene: impossibile la fuga. Se Oscar Wilde ha scritto "esistono due modi per non apprezzare l'Arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell'apprezzarla con razionalità", George Bernard Show ha affermato "si usano gli specchi per guardarsi il viso, e si usa l'arte per guardarsi l'anima".

Marta Galofaro

Le tele di Mario Amico sono i suoi occhi, sono la sua anima filtrata dai colori. Poche pennellate di colori per la maggior parte vivaci e che non sempre coprono tutta la tela esprimono il suo essere. Particolarmente dotato per il disegno sin da ragazzo Amico, non ha coltivato la sua passione quando svolgeva la sua vita di padre, marito,...

© 2017 Marta Galofaro. Tutti i diritti riservati.
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis!